Educazione
L’intelligenza artificiale (AI) è sulla bocca di tutti nel mondo aziendale. C’è chi la definisce la più grande rivoluzione tecnologica dai tempi di Internet, e chi invece la considera un fenomeno gonfiato dal marketing, destinato forse a deludere le aspettative.
Negli ultimi anni abbiamo assistito a investimenti record, startup AI in crescita esponenziale e ad applicazioni di AI generativa (ad esempio ChatGPT) capaci di attirare l’attenzione anche dei non addetti ai lavori.
I dati finora raccolti suggeriscono diversi benefici chiave, tra cui:
Secondo i dati di Eurostat, nel 2024 il 41,17% delle grandi imprese europee (con oltre 250 dipendenti) ha utilizzato almeno una tecnologia di intelligenza artificiale, mentre solo l’11% delle piccole imprese (con 10-49 dipendenti) ha integrato l’AI.
Non tutte le aziende stanno adottando l’intelligenza artificiale allo stesso ritmo. In generale, le grandi corporate mostrano un vantaggio marcato rispetto alle piccole e medie imprese (PMI) nell’implementazione di soluzioni AI. Le cause vanno principalmente ricercate nelle risorse disponibili (economiche e di competenze) e nella diversa percezione del rischio e del ritorno sull’investimento.
Dai dati europei emerge chiaramente questo divario: nel 2024 solo circa l’11% delle piccole imprese (10-49 dipendenti) nell’UE dichiarava di usare tecnologie di AI, percentuale che saliva al 21% tra le medie imprese (50-249 dip.) e fino al 41% tra le grandi imprese (250+ dip.). In altre parole, più è grande l’azienda, maggiore è la probabilità che abbia già abbracciato l’AI. Un’analisi globale di IBM conferma la tendenza: il 42% delle aziende di dimensioni enterprise (oltre 1000 dipendenti) ha già implementato attivamente soluzioni di AI, e un ulteriore 40% le sta esplorando in progetti pilota. Le PMI, invece, spesso restano alla finestra, valutando con cautela se e come investire.
Nonostante le grandi promesse, adottare l’intelligenza artificiale non è sempre semplice. Molte aziende si trovano a fare i conti con ostacoli concreti che rallentano – o addirittura bloccano – l’integrazione di queste tecnologie. Tra i problemi più sentiti c’è senza dubbio quello dei costi: per le PMI, in particolare, l’investimento iniziale appare spesso sproporzionato rispetto ai benefici attesi nel breve periodo.
Ma se c’è un fattore che davvero fa la differenza tra un progetto AI di successo e uno destinato a fallire, è la preparazione del personale. Le figure professionali specializzate – come data scientist, ML engineer o AI specialist – sono poche, molto richieste e difficili da trovare. Ma anche le aziende che riescono ad attrarre talenti, spesso scoprono che il vero nodo non è solo “avere” le competenze, ma diffonderle all’interno dell’organizzazione.
Non basta inserire un team AI in azienda se il resto della struttura non è in grado di collaborare, comprendere le logiche dei modelli o adattare i processi alle nuove tecnologie. Qui entra in gioco la formazione continua, che non è più un’opzione, ma una condizione necessaria. Formare persone già presenti in azienda – profili non tecnici compresi – vuol dire creare le basi per un’adozione consapevole, scalabile e realmente efficace.
In definitiva, l’intelligenza artificiale può diventare un potente acceleratore di business. Ma senza investimenti mirati nella crescita delle competenze interne, anche le tecnologie più avanzate rischiano di restare chiuse in un cassetto. Chi punta oggi sulla formazione strategica del personale, domani sarà pronto a guidare il cambiamento.
In un panorama dove l’intelligenza artificiale viene spesso raccontata come la soluzione a (quasi) tutti i problemi, è importante fermarsi un attimo e guardare anche l’altro lato della medaglia. Perché se è vero che l’AI sta trasformando il modo di fare impresa, è altrettanto vero che sta generando timori concreti, a tutti i livelli.
Molti lavoratori, ad esempio, si chiedono cosa ne sarà del proprio ruolo. L’automazione di processi che un tempo richiedevano intervento umano solleva interrogativi legittimi sul futuro del lavoro. La paura di essere sostituiti da una macchina non è solo un titolo da giornale: è una sensazione diffusa, che può bloccare l’adozione dell’AI all’interno delle aziende, alimentando resistenze culturali e tensioni interne.
C’è poi il tema dei bias e della discriminazione algoritmica. Un algoritmo non è mai davvero neutrale: riflette i dati su cui è stato addestrato. E se quei dati contengono errori, pregiudizi o squilibri, l’AI li replica – amplificandoli. In ambiti delicati come il recruiting, il credito o la giustizia, questo può portare a conseguenze gravi. L’intelligenza artificiale può decidere chi merita un colloquio o un finanziamento. Ma sulla base di quali criteri? Quanto sono trasparenti e spiegabili queste decisioni?
Tutti questi timori non sono un ostacolo all’adozione, ma un segnale: per fare davvero la differenza, l’AI ha bisogno di essere compresa, non solo implementata. Serve un approccio più maturo, che affianchi allo sviluppo tecnologico una crescita culturale e strategica. Formazione, consapevolezza, etica: sono questi gli ingredienti che possono trasformare la paura in fiducia, e i rischi in opportunità concrete.
Tornando alla domanda iniziale – AI nelle aziende: semplice hype o vera rivoluzione? – i fatti analizzati suggeriscono che l’AI rappresenti una rivoluzione in corso, ma con alcune doverose sfumature. Mai prima d’ora si era generato un tale livello di aspettative attorno a una tecnologia, con alcune narrazioni mediatiche che promettono miracoli e un’adozione quasi “magica” dell’AI. Molte aziende, spinte dalla paura di perdere il treno, annunciano iniziative AI senza una strategia chiara e un team competente, e una buona parte dei progetti fatica a produrre risultati tangibili.
I dati mostrano che quando l’AI è implementata con criterio e sostenuta dalle giuste condizioni (dati di qualità, competenze, visione strategica), produce effetti reali e misurabili. In settori come la finanza, la manifattura, il retail, l’AI è già oggi un fattore di vantaggio competitivo.
Tutto questo fa pensare che siamo solo all’inizio di una trasformazione profonda del modo di fare impresa, paragonabile per portata a quelle innescate dall’avvento del personal computer o di Internet.
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